Quest’anno cade l’anniversario del più grande scontro sociale mai avvenuto in Svizzera: lo sciopero generale del novembre 1918. Cento anni fa la Grande Guerra sta finendo in un clima di forti tensioni e rivolte; l’anno prima era scoppiata la rivoluzione comunista in Russia e in tutta l’Europa milioni di persone sono allo stremo.
 La Confederazione non è coinvolta direttamente nel conflitto, ma le frontiere sono (quasi) chiuse, molti i soldati mobilitati e anche da noi le condizioni di vita sono peggiorate per la grande maggioranza dei lavoratori. Una forte inflazione, l’esclusione del popolo dalle decisioni politiche (il governo ha i «pieni poteri») e varie riforme sociali rimandate, mentre alcuni imprenditori sono riusciti a realizzare grandi profitti di guerra.
A partire dal 1917 scoppiano vari scioperi, e il movimento operaio organizzato cerca di reagire alla difficile situazione. Si forma il Comitato di Olten, composto da dirigenti del Partito Socialista e dell’Unione Sindacale Svizzera, che inizia a elaborare un programma di rivendicazioni economiche e anche politiche.
Nell’autunno del 1918 – siamo proprio agli ultimi giorni di guerra – la situazione precipita, il Consiglio Federale interrompe le trattative e il Comitato di Olten indice uno sciopero di protesta (il governo aveva fatto sfilare le truppe a Zurigo a fini dimostrativi) il 9 novembre in 19 città. Il 10 novembre a Zurigo vi sono scontri fra militari e dimostranti e il giorno seguente è proclamato lo sciopero generale. L’appello «Ai lavoratori della Svizzera» contiene 9 rivendicazioni: sindacali (settimana di 48 ore), sociali (AVS), politiche (rielezione del Consiglio nazionale col sistema proporzionale, suffragio femminile) e connesse con la situazione di guerra (dovere per tutti di lavorare, riforma dell’esercito, approvvigionamento alimentare, monopolio del commercio con l’estero, imposta sulla sostanza). L’astensione generale dal lavoro ha piuttosto successo nella Svizzera tedesca, meno in quella francese e nel Ticino; in totale gli scioperanti sono almeno 250mila. La partecipazione di molti ferrovieri, che portano il movimento nelle regioni rurali altrimenti poco toccate, suscita profonda impressione. Le rivendicazioni sono riformiste, non sono «rivoluzionarie», ma il governo e alcuni ambienti conservatori e patriottici considerano lo sciopero come l’inizio di una possibile rivoluzione.
Lo sciopero termina il 14 novembre, dopo l’ultimatum del governo che minaccia di fare intervenire le truppe. Purtroppo a Grenchen tre scioperanti sono uccisi con armi da fuoco.
 
Che bilancio trarre?
Per le forze di sinistra la brusca fine della manifestazione è sentita come un fallimento, ma alcuni elementi positivi emergono subito: una parziale diffusione della settimana lavorativa di 48 ore e il rinnovo del Parlamento con un nuovo sistema proporzionale (i Socialisti e anche il Partito Conservatore ne traggono subito un forte beneficio). Per il raggiungimento di altre riforme bisognerà lottare ancora a lungo, l’AVS è accettata solo nel 1947 e il voto alle donne nel 1971.
Probabilmente il forte choc del 1918 alla lunga favorisce poi l’idea che per risolvere i conflitti del lavoro sia più utile ricorrere alla concertazione e al dialogo che non allo scontro; il primo accordo di pace del lavoro è del 1937 nell’industria metallurgica (in un clima internazionale molto delicato). Il Partito Socialista Svizzero a sua volta si integra sempre di più nel sistema democratico-liberale e nel 1943 un suo primo rappresentante entra nel Consiglio Federale.
Due considerazioni finali. Il minoritario movimento sindacale cristiano-sociale svizzero nel 1918 appoggia gran parte delle rivendicazioni dei lavoratori, ma per finire non appoggia lo sciopero generale, preoccupato dal «clima rivoluzionario» e «internazionalista» del momento; ha paura della dimensione politica dello sciopero e condanna la «lotta di classe». In Ticino lo sciopero generale ha poco successo (in luglio vi era però stato a Lugano un breve sciopero generale guidato dalla Camera del Lavoro), mentre le Leghe Operaie Cattoliche se sostengono i lavoratori nelle loro richieste pure condannano la dimensione «politica» del conflitto. Il duro scontro sociale è però sentito in maniera molto forte, e contribuisce alla riflessione interna; si capisce la necessità di passare da un movimento leghista-mutualista alla nascita di veri sindacati cristiano-sociali. Qualche mese dopo, infatti, con un congresso di tutte le forze cristiano-sociali ticinesi a Bellinzona (18 maggio 1919) nasce l’OCST.
 
Alberto Gandolla, storico OCST