Lo scorso 17 ottobre LaRegione ha fatto emergere una situazione sconcertante: secondo le testimonianze dirette di alcuni lavoratori, in una divisione di GUESS, per anni il superiore ha tenuto atteggiamenti scorretti nei confronti dei suoi collaboratori generando problemi di natura psicologica, divisioni anche insanabili tra i colleghi e tensioni insostenibili.

Quando finalmente l’incubo sembrava stesse per finire, improvvisamente la beffa. Di fronte all’inattesa disponibilità del presidente a fare luce sui fatti, le persone coinvolte si sono fidate e hanno cominciato a testimoniare raccontando nel dettaglio fatti e situazioni. La fiducia è cresciuta grazie alla sospensione «a tempo indeterminato» del diretto interessato. Ma quando tutti si aspettavano una chiusura del caso, ecco l’incomprensibile dietrofront: annuncio del reintegro del manager cui verrà imposto un percorso di coaching ed il supporto costante di una persona delle risorse umane. «Oltre al danno la beffa» come ha titolato LaRegione, ma è proprio vero… Nel giro di poche ore si è passati dalla speranza che finalmente la vita professionale di circa venti persone potesse ripartire, al rientro del responsabile in azienda che ha chiaramente spiazzato, sconcertato e tolto il fiato a tutti. All’improvviso ogni cosa si è tinta di nero ed in moltissimi non hanno retto alla tensione cadendo in un pericoloso stato di prostrazione e smarrimento.

Sono andati così i fatti? Lo chiediamo ad alcuni collaboratori direttamente coinvolti in questa lunga vicenda ai quali naturalmente garantiamo il totale anonimato e che ringraziamo per il loro tempo e coraggio.
In estrema sintesi è proprio andata cosi: in anni di lavoro in quella divisione di GUESS, il responsabile ha sempre avuto, più o meno, degli atteggiamenti discutibili. Amava metterci in difficoltà, privarci delle sicurezze e tenerci tutti in scacco con la minaccia che, se non avessimo fatto sempre come lui voleva, ci avrebbe licenziati.

In che senso «più o meno»?
Diciamo che il grado d’insopportazione nei suoi confronti cresceva quanto più direttamente ci avevi a che fare: essendo un team di lavoro formato da più persone, quelle che riportavano a lui solo tangenzialmente o saltuariamente non erano oggetto costante delle sue minacce e dei suoi atteggiamenti. Ma crediamo che nessuno possa confutare quanto sta emergendo. Alcuni suoi comportamenti problematici erano noti a tutti. Del resto era capitato più volte che facesse battute plateali sull’aspetto fisico dell’una o dell’altra collaboratrice e che in funzione di questo ne decidesse lo spostamento di postazione: «Per evitare di vedere le più brutte» diceva senza farsi problemi! Così com’erano noti i suoi scatti d’ira quando qualcuno, sempre a sua detta, diceva o faceva nel proprio lavoro qualcosa che non andava.

Il motivo per cui non avete mai pensato di denunciare è stata quindi la paura?
È stata la paura e il fatto che inizialmente non eravamo uniti tra di noi. Lui cercava anche di creare competizione mettendoci gli uni contro gli altri: dicendo a uno di noi che l’altro ne parlava male, facendoci fare brutte figure con clienti e fornitori o dandoci obiettivi diversi e contrastanti. Ci toglieva fiducia e aumentava i nostri complessi. Oltre alla paura e alla mancanza di un’unità d’intenti, la cosa non è mai emersa chiaramente anche e soprattutto perché lui godeva veramente di un grandissimo potere e nessuno in azienda (in primis le risorse umane) sembrava avere l’autorità di cambiare le cose.

Cosa vi ha dato l’illusione che le cose potessero cambiare?
Nel corso del mese di aprile di quest’anno il presidente in persona si è dimostrato attento alla nostra storia e soprattutto aperto a trovare una soluzione. Prima di allora non era mai capitato. Insieme alla direzione delle risorse umane ha imbastito un’indagine interna per far emergere l’oggettività delle problematiche che il nostro responsabile ci generava, ma anche per metter in luce i problemi che generava a tutta l’azienda. La collaborazione è andata avanti per diverse settimane e in noi si era finalmente creata una rinnovata fiducia, tanto che ci siamo sentiti liberi di raccontare anche fatti molto personali. Il tutto è stato raccolto in un fascicolo corposo comprensivo anche di testimonianze registrate.

Cos’ha generato un blackout nell’indagine che sembrava promettere una soluzione al problema?
Nei primi giorni di giugno si è presentato il presidente a Bioggio. Con noi ha avuto un atteggiamento di protezione e comprensione: abbiamo chiaramente percepito anche dalle sue parole la volontà di proteggerci e di voler finalmente prendere una posizione nei confronti di questo responsabile. Noi ci sentivamo forti della nostra unità, ma anche dal fatto che per la prima volta il numero uno dell’azienda si stava esponendo. Crediamo che avendo letto o preso visione di tutte le testimonianze e del fatto che l’onda fosse più alta di quanto probabilmente pensasse, si sia deciso a sospendere cautelativamente il manager prendendosi 48 ore di tempo per costruire una strategia. Tuttavia il 14 giugno in mattinata, ci ha annunciato la volontà di non volere prendere posizione contro di lui, ma di volerlo reintegrare sotto la supervisione costante di un membro delle risorse umane e con la garanzia che intraprendesse un percorso di coaching personale.

A questo punto cosa vi siete detti?
Sembra assurdo, ma non ci siamo dati per vinti e abbiamo cercato ancora una soluzione: abbiamo scritto una lettera al presidente sotto forma di petizione chiedendo che rivedesse la sua scelta e la sua decisione anche perché tutte le nostre testimonianze a quel punto erano state riportate al superiore e ci spaventava un suo rientro. La situazione si è talmente ribaltata che nel tardo pomeriggio il responsabile, benché formalmente ancora sospeso, si è presentato in azienda sfidando con il suo atteggiamento l’equilibrio psicologico di molti di noi… tanto che una manciata di minuti prima di finire la giornata lavorativa, senza intravvedere più soluzioni, non abbiamo avuta altra possibilità se non andare a casa: turbati, sfiduciati e svuotati.

L’azienda nel suo comunicato del 18 ottobre fa intendere che i fatti siano andati diversamente: che vi avessero comunicato la decisione di allontanare definitivamente la persona. Inoltre affermano che la vostra assenza fosse pretestuosa.
Ognuno di noi ha lavorato finché le condizioni sono state sostenibili. L’assenza, per gravi e accertati motivi medici, è stata una protezione della nostra dignità e della nostra salute e non un attacco all’azienda. Fino al 14 giugno, tutti eravamo presenti e tutti eravamo convinti che la situazione si sistemasse, ma nel giro di poche ore lo scenario è stato stravolto. La nostra petizione era l’ultima speranza che avevamo, ma anche questa ha ricevuto una risposta negativa. Nel fine settimana il presidente ha diffuso un video messaggio a tutti noi dicendoci che la sua scelta andava rispettata, che aveva una sua logica e che avremmo dovuto fidarci di lui. Tuttavia nessuno di noi a quel punto ha intravisto le condizioni per poter rientrare. Per questo a mano a mano nella settimana successiva una ventina di persone hanno confermato l’assenza per patologie oggettive. Da quella settimana di giugno l’azienda ha rotto ogni contatto con noi e non ci ha più consentito di ricevere informazioni; tanto che la scelta di allontanare il nostro superiore in forma definitiva l’abbiamo appresa per la prima volta dal comunicato di GUESS dello scorso venerdì 18 ottobre.

Nessuno di voi ha provato a rientrare?
Assolutamente sì, il lunedì successivo uno di noi è rientrato, dando fiducia alle parole del presidente, ma è stato allontanato subito: «Ma cosa ci fai tu qui?» gli è stato detto e il giorno seguente è stato licenziato senza ragioni, lanciando implicitamente a tutti un chiaro segnale di sfida: a quel punto erano crollate tutte le nostre speranze.

Cosa vi aspettate adesso?
A giugno nessuno di noi avrebbe pensato o voluto perdere il lavoro, ognuno di noi è appassionato e si è sempre impegnato al massimo. La ferita più profonda riguarda proprio la inquietudine di non avere più un’occupazione e di non sentirci colpevoli di nulla, di averla persa per colpe altrui! Pertanto la prima aspettativa è che si dica la verità e che la nostra dignità in quanto persone e lavoratori sia riabilitata. Oltre a tutto quello che abbiamo passato, ci umilia leggere che l’azienda avrebbe fatto di tutto per risolvere la situazione e, tra le righe, che siamo stati noi ad avere un atteggiamento irresponsabile. Qui c’è una ventina di persone che nonostante tutto per anni ha portato risultati all’azienda, si è impegnata malgrado le umiliazioni e le vessazioni e che per anni non ha saltato un solo giorno di lavoro nonostante fatiche e pressioni insostenibili. Per cui in primis chiediamo rispetto e verità.

Paolo Coppi