Il settimo giorno, persino Dio si riposò da tutta l’opera che aveva fatto. Il primo a sancire per legge il riposo domenicale fu l’imperatore romano Costantino nel 321.

«Nel venerabile giorno del Sole, si riposino i magistrati e gli abitanti delle città, e si lascino chiusi tutti i negozi» stabiliva il decreto sul «Venerabilis dies solis». Più tardi, nel medioevo i giorni nei quali veniva sospeso il lavoro erano 80-85 l’anno, come scrive Mons. Del-Pietro, storico segretario cantonale dell’OCST, in un articolo del 1951 proprio dedicato al riposo domenicale. In Svizzera la Legge sulle fabbriche del 1877 stabilisce questo importante principio.
Grazie a queste regole nel nostro Paese l’85 percento delle lavoratrici e dei lavoratori possono dedicare la domenica al riposo e alle relazioni tanto che questo quasi viene dato per scontato. Purtroppo però non è così visto che recentemente sono stati numerosi gli attacchi al principio della sospensione del lavoro domenicale. 
In primis l’iniziativa Graber, che mirava a sopprimere completamente il riposo domenicale per i quadri e gli specialisti del settore dei servizi, e che è stata per fortuna attenuata limitando l’autorizzazione al lavoro per 9 domeniche all’anno. In seguito, a settembre di quest’anno, la Commissione dell’economia del Consiglio nazionale ha approvato un progetto di legge per esentare in modo completo dalla legge sul lavoro le giovani imprese nei primi cinque anni di vita.
Il Consigliere federale Parmelin, oggi poi mette in discussione l’ordinanza che prevede che, nelle zone turistiche urbane delle principali città del paese, i negozi possano rimanere aperti solo per vendere prodotti di prima necessità per i turisti. Vorrebbe quindi le aperture generalizzate dei negozi anche la domenica.  
I sostenitori di queste liberalizzazioni pretendono che quella del riposo settimanale sia un’idea vecchia e che il futuro debba prevedere una libertà totale su tutto. Peccato poi scoprire che la libertà totale ha delle gravi conseguenze che principalmente potremmo riassumere in due aspetti: quello della salute e quello sociale.
Il fatto di mettere in discussione un giorno della settimana di stop dalle attività per la maggior parte delle persone significa in sostanza negare alle lavoratrici e ai lavoratori un giorno intero di pausa dal lavoro nella settimana. Ma questo è sempre più necessario specialmente in un mondo come il nostro nel quale siamo costantemente interconnessi; nel quale è facile prendere il telefono la sera tardi e rispondere a un’email oppure ad un messaggio. A molti sarà capitato di constatare come, prendendo un giorno di riposo durante la settimana, ci si trovi a rispondere alle sollecitazioni di chi quel giorno invece lavora. La domenica resta un baluardo di riposo necessario per la nostra salute. 
Ma il futuro, ci dicono, è indirizzato verso la flessibilità. È interessante allora leggere Del-Pietro che nel 1951 scriveva: «Non è il caso di ripetere le ragioni e le giustificazioni di tali conquiste (n.d.r., domenica di riposo, sabato inglese e vacanze) come non è la sede per illustrare il fatto che alle previsioni pessimistiche e talvolta catastrofiche sulle situazioni che sarebbero state fatte alle industrie e ai traffici ad ogni riduzione della durata lavorativa ha fatto riscontro… l’opposto, cioè un ulteriore aumento della produttività». È dal ’51 quindi che siamo consapevoli che la privazione del riposo alle lavoratrici e ai lavoratori non giova ai risultati aziendali. E la consapevolezza del 1951 è confermata dalle aziende che oggi propongo la settimana lavorativa di quattro giorni. Perché allora tornare a sostenere l’abolizione del riposo domenicale? Non sarà un fatto ideologico che fa corrispondere nelle menti di qualcuno la libertà con il liberismo?
È essenziale poi dal punto di vista sociale che il giorno di riposo settimanale sia comune a tutti. È il giorno nel quale la maggior parte di noi non si dedica al lavoro, ma ad altro. Nel quale ci si può incontrare, ci si dedica alle iniziative sociali e culturali. Privarcene significa depauperare ancora una volta la vita comunitaria della sua linfa vitale.

Benedetta Rigotti